Il 15 novembre è la Giornata Nazionale della Solitudine, una “giornata” dedicata per far emergere un problematica fondamentale per la nostra collettività.
La solitudine è una vera e propria patologia a tutti gli effetti che uccide (è un fattore di rischio per possibili condotte suicidarie), che "ci costa" e che non riguarda tra l’altro solo gli anziani ma con forme e ricadute diverse investe anche i giovani e il loro universo di riferimento.
La maggior parte delle depressioni hanno le sue radici nella solitudine, ma la comunità medica preferisce parlare di depressione piuttosto che di solitudine. È più facile liberarci del problema dando una diagnosi e una scatola di farmaci. Perché se cominciassimo a parlare di solitudine, sapremmo per certo, che non ci sono farmaci. Non c'è industria medica che tenga, basta l'amore umano.
La solitudine evoca aspetti contraddittori: il restare piacevolmente con se stessi, rifugiandosi nel proprio intimo o altresì vivere l'abbandono altrui e quindi la condizione di isolamento/esclusione sociale.
La lingua inglese ha saggiamente intuito i due aspetti contraddittori della solitudine. Così ha creato la parola "solitude" per esprimere la scelta di essere soli (l'uomo solitario che sta bene con se stesso). E ha creato la parola "loneliness" per esprimere una solitudine sofferta e non scelta. Nella lingua italiana per esprimere i due concetti esiste solo la parola "solitudine".
Etimologicamente il termine solitudine riporta al termine "separare", composta da "se": divisione e "parare": parto. Perciò il termine ci riporta alla separazione del neonato dalla madre, con la conseguente perdita dello stato simbiotico di due esseri viventi in un solo corpo. Il termine stesso ricorda all'individuo la perdita subita per poter sopravvivere, per entrare nell'esistenza: la condizione necessaria è la perdita del duo e l'acquisizione della condizione di solitudine.
Secondo studi oramai consolidati dalla ricerca, la solitudine influenza l'attivazione dei neuroni dopaminergici e serotoninergici, che sono alla base del nostro benessere emotivo. L'uomo preistorico aveva necessità di affiliarsi in gruppi di umani per sopravvivere, assicurando protezione per sé e la prole. Il cervello è settato ancora su quelle frequenze: se l'uomo vuole sopravvivere deve avvalersi della protezione e del sostegno di altri umani. È, perciò, un meccanismo biologico che conduce l'individuo a cercare relazioni sociali. La solitudine è, quindi, un vissuto naturale nell'esperienza umana ma se diviene uno stato cronico può portare a stati depressivi, disturbi post-traumatici da stress, ansia, panico, tutti aspetti correlati alla salute mentale.
Alcune ricerche sociologiche italiane riportano dati allarmanti: moltissime persone dichiarano di non avere una rete amicale o di sostegno. La solitudine invade anche gli "insospettabili", coloro i quali hanno tante relazioni, che sono presenti in diversi gruppi social e che hanno milioni di followers.
Il periodo della vita maggiormente a rischio in questo panorama in costante mutamento e quindi per nulla solido è l'età adolescenziale, momento dell'esistenza di passaggio. Questo diviene sempre più complesso in un contesto socio-economico e affettivo in continuo mutamento in cui le famiglie perdono il ruolo di guida, in quanto rese fragili dai cambiamenti sociali, dalle separazioni, dalle assenze, dai divorzi, dalle carenze nella comunicazione e nel dialogo.
Viene sempre meno il tempo da dedicare alla cura e alle attenzioni all'interno della famiglia, non si ha più tempo per le relazioni, deprivando i giovani esseri umani delle basi sulle quali costruire la propria identità, lasciandoli, perciò facili prede dei mass media, delle mode, dei gruppi social e del virtuale portando l'individuo ad un isolamento sempre più profondo, in quanto non si sceglie di restare soli, non si sceglie la condizione di solitudine ma diviene obbligata in quanto non si posseggono gli strumenti per evitarla.
La solitudine è essenziale come vissuto nell'attivazione del meccanismo di ricerca della socialità e come di per sé non conduca a comportamenti negativi, ma l'assenza reiterata di stimolazione alla socialità porta a comportamenti ansiosi e depressivi. Ne deduciamo che l'essere umano oscilla tra stati di solitudine e ricerca di contatti sociali, infatti l'uomo nasce dipendente dal care-giver, generalmente la madre che accudisce il nascituro. Il vero allarme, quindi non è nella solitudine di per sé che è un'esperienza umana come altre, ma se quell'esperienza non viene supportata da strumenti adeguati diventa un evento traumatico, temuto, evitato e infine subito.
Ciò che rende socievoli gli uomini è la loro incapacità di sopportare la solitudine e, in questa, se stessi.
Arthur Schopenhauer
Abbiamo dimenticato cosa sia guardarsi l'un l'altro, toccarsi, avere una vera vita di relazione, curarsi l'uno dell'altro. Non sorprende se stiamo morendo tutti di solitudine.
Leo Buscaglia
Bibliografia
Borgna, E. (2001). L’arcipelago delle emozioni. La Feltrinelli, Milano.
Castellazzi, V.L. (2000). Dentro la Solitudine. Città Nuova ed., Roma.
Costa, E. (2000). Psicopatologia della solitudine. Guerini Studio, Milano.
Lo Iacono, A. (2003). Psicologia della solitudine. Riuniti ed., Roma.
Selby, J. (1999). Elogio della solitudine. Armenia ed., Milano.
Talec, P. (2002). La solitudine: viverla o subirla? Paoline ed., Milano
Silvia De Napoli (articolo 28 agosto 2019): La solitudine, fonte di benessere ma di altrettanta patologia
- Log in to post comments