Le parole del "nostro" futuro

Quarantena

Di Flavia Cappadocia. Dieci marzo - quattro maggio. Cinquantacinque giorni precisi. Tanto è durato il lockdown in tutta Italia. Siamo stati prigionieri in casa, in balìa dei nostri pensieri che ci hanno spinto lì dove non avevamo osato immergerci. In bilico su un baratro aperto che abbiamo cercato di chiudere, non da soli ma insieme, con un abbraccio collettivo che in tempi recenti nessuno aveva mai conosciuto e che ci ha salvato dal buio di quei giorni sospesi. L’isolamento lo abbiamo vissuto con ogni parte del corpo, fino al cuore, dove abbiamo messo al sicuro gli affetti, gli amori passati e quelli futuri, preservato gli amici, vecchi e recenti, ma anche i nostri ricordi, le aspettative, i propositi. Abbiamo perso la linea del tempo, il passato si è fatto presente e il presente futuro. Abbiamo riso o pianto in piena notte, abbiamo sperato con tutte le forze, abbiamo sfidato l'abisso di non sapere cosa sarebbe successo il giorno seguente e quello dopo ancora. Siamo tornati in superficie e abbiamo ricominciato a respirare, protetti dalle mascherine, sì, ma respirare. Abbiamo dovuto trovare un posto dentro dove custodire questi giorni in casa, conservarli da qualche parte con gelosia perché possano aiutarci ad affrontare un futuro pieno di incertezze. “Da qui in poi, speranza,” recita una bellissima poesia del sud coreano Ko Un. Non sappiamo se alla fine ne usciremo trasformati, in meglio o in peggio, lo scopriremo solo passo dopo passo. O forse solo tra anni. Quello che sappiamo però è che la distesa azzurra del cielo è di una bellezza da far male e che nel nostro Dna, oltre all’amore per gli altri esseri umani, probabilmente c’è scritto anche questo. Il cielo, la terra, gli alberi, il sole. Sono il nostro posto nel mondo. Le case, per chi ha la fortuna di averne una, ci hanno salvato la vita, è vero. Ma l’esistenza è proprio lì fuori, nei raggi di sole e nelle gocce di pioggia. “La strada non c’è - conclude la poesia di Ko Un - perciò la costruisco mentre procedo”.